Review Martina Del Grosso Italy Dec 2019

Katie Duck e il senso (amaro) della vita: a Spam! la regina dell’improvvisazione Grande performance per uno degli eventi più attesi della rassegna ‘Tempi di reazione’ di Martina Del Grosso – 11 Dicembre 2019 – 9:08

Grande successo a Tempi di reazione per Katie Duck: la regina dell’improvvisazione ha permesso di riflettere sui limiti del nostro tempo con la percussionista Maria Luisa Pizzighella.

Viviamo tempi complessi. Tempi di crisi economica, sociale ed esistenziale, dove i rapporti umani perdono sempre più consistenza e valore. Un disagio pervasivo e palpabile, che chiede fortemente una reazione: ma quale? Come sfondare i muri fra le persone? Come liberarsi da ciò che lacera, fa soffrire, dispera? Come sciogliere quelle catene che opprimono l’anima, impedendole di vivere senza timore? Una risposta si può trovare nell’arte, come specchio del nostro malessere e al tempo stesso sua catarsi, liberazione.

Proprio giocando su questi due aspetti dell’esperienza artistica si articola la rassegna Tempi di reazione dedicata all’improvvisazione, che dal 4 al 9 dicembre ha animato i locali di Spam! (Porcari), Artemisia e Artè (Capannori), con tanti ospiti d’eccezione. Dopo l’attore e autore Paolo Rossi (4 dicembre) e le danzatrici Cristina Rizzo e Alessandra Cristiani con il percussionista Ivan Macera (giovedì 5 dicembre), a calcare la scena di Via Don Minzoni 34 lo scorso 6 dicembre è stata una delle invitate più attese: la danzatrice Katie Duck, insieme alla musicista Maria Luisa Pizzighella.

Protagonista della danza europea, Katie è la Abramovic dell’improvvisazione, ma anche e soprattutto un’artista completa: ballerina, coreografa e insegnante, nasce nel 1951 a Oxnard, in California per poi trasferirsi ad Amsterdam nel ’76. Dal 1979 si esibisce in Italia con Mind the gap, Rutles, The Orange Man e Brown eye Green eye, performance d’improvvisazione dove musica, parola e danza, si contaminano reciprocamente.

Proprio come nell’esibizione che si è tenuta a Spam!: “Sono molto contento di proporre un genere d’arte non commerciale – dice Roberto Castello, direttore artistico della rassegna – Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, si usava molto fondere parola, canto e teatro, proprio come fa Katie. Ora purtroppo ci sono estetiche diverse ma è normale: cambiano le sensibilità e cambiano anche gli strumenti e i riferimenti”.

Due donne al centro della scena, una luce soffusa. Povera la scenografia, gli sguardi sono tutti per Katie e Maria Luisa che giocano fra loro, rompendo le barriere fra palcoscenico e spettatori. L’esibizione inizia proprio così: con Katie fra il pubblico, un microfono in mano, sguardi e parole di sofferenza e d’accusa. Quelle di una donna prigioniera di sé stessa, carica di emozioni implose, soffocata da un involucro sociale artificiale e fittizio. Sono parole contro un vivere egoistico, senza proiezioni al di fuori di sé: senza empatia, comprensione, gentilezza. Privo di energia e spirito vitale.

“Dove siamo? Tu stai bene? Dove siamo?”, interroga gli spettatori, ammonendoli: “Non solo in Italia, ma anche negli altri paesi è semplice stare soli col mondo, e non pensare a niente, vero? È semplice – incalza – pensare a sé stessi, senza avere empatia per le persone. È semplice fumare e mangiare, di questi tempi qui… in una cultura così priva di armonia”. Osservando le artiste rincorrersi sul palco, fra gesti scomposti e lo stridore delle percussioni, si intravede un’immagine di disgregazione interiore. Katie e Maria incarnano lo specchio della società e delle sue anime malate, senza forma e consistenza: riflettono un’intima disarticolazione che si dispera e accusa.

Un’accusa a più livelli: contro un mondo chiuso, che riduce il senso della vita a un’insensata competizione; contro un’esistenza consumata da abitudini malsane, rendendo schiavi di un sistema corrosivo; contro gli stereotipi femminili, che tante battaglie femministe non hanno scalfito. Dagli anni Cinquanta ad ora, siamo solo passati da una gabbia all’altra, sembra dire Maria Luisa con in mano un’enorme conchiglia, simbolo ironico dell’organo femminile. Oppure, alludendo ai richiami sessuali nella forma degli strumenti musicali, in fila sotto gli occhi dello spettatore. Perché la donna, e la persona in generale, si smarrisce fra gli involucri di una società malata, proprio come un tempo. Finendo ancora per chiedersi: chi sono io?

Una performance che accusa a più livelli, e a più livelli abbatte anche confini. Quelli fra scena e palco; fra attori e spettatori; fra lo spazio e la persona, che si fonde nei ritmi delle percussioni, liberando una forza dionisiaca repressa. E soprattutto, una performance che distrugge le barriere fra poesia, canto e musica, rievocando le grandi session poetry di Patty Smith, Lou Read, John Giorno, Frank Zappa. Oppure, molto più indietro nel tempo, l’antica mimesis greca: quella fusione sognante di musica e parola in una poesia da interpretare e cantare.

Una poesia viva: “Bisognerebbe recuperare la radice della poesia che è l’oralità – suggerisce Castello – Ed è quello che Spam! cerca di fare con Tempi di reazione, e la potenza dell’improvvisazione. Ma purtroppo, è molto difficile attirare il pubblico su un’arte non commerciale e alla moda”.


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